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Autore: Maria Elena Bersiga

Le anfore da vino

“Torniamo all’antico, sarà un progresso” scrisse nel 1871 Giuseppe Verdi uno dei più celebri personaggi che hanno visto i natali nelle terre parmensi. Chissà se alle Tenute-Venturini Foschi, nate proprio in quelle stesse terre (solo un poco più a sud), a qualcuno non sia venuta in mente questa frase quando si è deciso di utilizzare le anfore da vino in terracotta per la vinificazione del loro Gemma Gentile.

Già, perché l’uso delle anfore da vino in terracotta per la fermentazione e l’affinamento è antichissimo e sorprende che negli ultimi anni, dopo che sono state sviluppate macchine e tecnologie innovative per la vinificazione, molte aziende viticole siano tornate a un contenitore naturale così semplice ed essenziale.

Ma buttando un occhio alla storia e soprattutto alla tradizione della Georgia – dove la vinificazione nelle anfore, chiamate qvevri e diventate patrimonio dell’UNESCO nel 2013, è nata 8000 anni fa e non è mai passata di moda – molti produttori devono avere compreso che un ritorno alle origini, rielaborato in chiave moderna, poteva rappresentare un passo verso il futuro.

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Malvasia o Malvasie?

Ipotizzate di chiedere a un parmense, a un brindisino e a un friulano di disegnarvi un grappolo di malvasia.
Sotto ai vostri occhi stupefatti vedrete delinearsi una piramide con acini giallo dorati, un cono a bacca nero violacea e, infine, un cilindro con acini verde giallognoli.

Che cosa è successo? Vi state chiedendo se i tre abbiano bevuto troppa Malvasia (e in questo caso, per confondervi ulteriormente le idee, non stiamo parlando di uva ma di vino)? Ebbene no, ognuno di loro sta semplicemente descrivendo uno dei tanti vitigni che in Italia viene chiamato malvasia. Il parmense si riferisce alla Malvasia di Candia Aromatica, il brindisino alla Malvasia nera di Brindisi e il friulano alla Malvasia Istriana.

A portare questo nome sono, infatti, numerosi vitigni, ben oltre i tre sopracitati, tanto che già nel 1963 Giovanni Dalmasso, agronomo e autore di pubblicazioni di riferimento per la viticoltura italiana, scriveva:

«Se dovessimo anche solo elencare tutti i vitigni che più o meno legittimamente portano il nome di malvasia – e quindi cercar di stabilire quali hanno ragione di conservare questo nome e quali no – dovremmo occupare varie pagine senza sperare di riuscire nell’intento».

Giovanni Dalmasso

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